domenica 30 aprile 2017

GIUSEPPINA GHERSI. NELLE SCUOLE NE PARLATE ?

 
Da decenni i "signori" dell'anpi e compagnia cantante
vanno nelle scuole
a decantare le "radiose giornate", invitando intere scolaresche
alla celebrazione della sconfitta del 25 aprile.
Di certo non raccontano ai ragazzini l'atroce e infame storia di
 
 GIUSEPPINA GHERSI
 

VIOLENTATA E UCCISA
 IL 30 APRILE 1945
PER UN TEMA CHE AVEVA RICEVUTO 
IL PLAUSO DI MUSSOLINI. 
 

Giuseppina Ghersi. Per molti, fino a qualche anno fa, questo cognome risultava sconosciuto e privo di qualsiasi collegamento ad eccezione di una copia di denuncia presentata alla Questura di Savona nel 1949. Giuseppina, una bambina di appena 13 anni, fu pestata, stuprata e giustiziata dai partigiani comunisti con l’accusa di essere al servizio del regime fascista. La famiglia Ghersi, che viveva a Savona e gestiva un negozio di ortofrutticola, non era neppure iscritta al Partito Fascista. Studentessa delle magistrali alla “Rossello” fu premiata direttamente da Mussolini per aver svolto con merito un concorso a tema. Questa la sua condanna. La mattina del 25 aprile 1945, Giuseppina fu sequestrata in viale Dante Alighieri, da tre partigiani comunisti, e portata nei locali della Scuola Media “GuidoBono” a Legino, adibito a Campo di Concentramento per i fascisti. Le tagliarono i capelli e le cosparsero la testa di vernice rossa. Fu pestata a sangue e seviziata per giorni, tutto questo sotto lo sguardo impietrito dei genitori, anche loro deportati e imprigionati. Il 30 aprile, Giuseppina, fu giustiziata con un colpo di pistola alla nuca e il suo corpo gettato, insieme ad altri, davanti al cimitero di Zinola
 
 
Giuseppina Ghersi (1931 – 30 aprile 1945) era una studentessa di 13 anni dell'istituto magistrale "Maria Giuseppa Rossello" del quartiere “La Villetta” di Savona. Una bambina accorta e diligente, figlia di commercianti ortofrutticoli abitava in via Tallone, attualmente via Donizetti. Dall’esposto del padre, Giovanni Ghersi, presentato al Procuratore della Repubblica di Savona in data 29 aprile 1949, di cui è possibile chiedere copia all’Archivio di Stato di Savona, e che consta di sei cartelle minuziosamente vergate a mano, leggiamo che: “Il 25 aprile ‘45, alle 5 pomeridiane” i partigiani, appena entrati a Savona, chiedono ai Ghersi del “materiale di medicazione” che la famiglia non esita a “fornire volentieri”. Il giorno successivo, come di consueto, i coniugi si dirigono verso il loro banco di frutta e verdura, ma in zona San Michele, poco dopo le 6.00 del mattino, sono fermati da due partigiani armati di mitra. Vengono portati al Campo di Concentramento di Legino , situato nella zona dell’odierno complesso delle Scuole Medie Guidobono, dove un terzo partigiano sequestra loro le chiavi dell’appartamento e del magazzino. Dopo circa mezz’ora viene deportata al Campo anche la cognata e i partigiani, senza testimoni, possono finalmente procedere rubando le merci dal negozio e tutti i beni della famiglia presenti in casa. Solo Giuseppina manca all’appello perché ospitata da alcuni amici di famiglia in Via Paolo Boselli 6/8.
I Ghersi, ormai detenuti da due giorni senza lo straccio di un’accusa, chiedono spiegazioni ai partigiani che rispondono rassicurandoli. Viene loro detto che si tratta di un semplice controllo e che hanno bisogno di fare delle domande alla figlioletta. Siccome Giuseppina aveva precedentemente vinto un concorso a tema ricevendo, via lettera, i complimenti da parte del Segretario Particolare del Duce in persona, trattandosi di una bonaria quisquilia, i genitori si persuadono circa le intenzioni dei partigiani e, accompagnati da uomini armati, vanno a prendere la piccola. L’intera famiglia Ghersi viene dunque tradotta nuovamente al Campo di Concentramento dove inizia il primo giorno di follia. E’ il pomeriggio del 27 Aprile 1945: madre e figlia vengono malmenate e stuprate mentre il padre, bloccato da cinque uomini, è costretto ad assistere al macabro spettacolo percosso dal calcio di un fucile su schiena e testa. Per tutta la durata della scena gli aguzzini chiedono al padre di rivelare dove avesse nascosto altro denaro e oggetti preziosi.
Giuseppina cade probabilmente in stato comatoso perché, come riferisce l’esposto al Procuratore, “non aveva più la forza di chiamare suo papà”.
Verso sera inizia a piovere e le belve, stanche di soddisfare i propri istinti, conducono Giovanni e Laura Ghersi presso il Comando Partigiano di Via Niella dove viene chiaramente detto che a loro carico non è emerso nulla. Nonostante ciò i partigiani li rinchiudono nel carcere Sant’Agostino.
Giuseppina subisce da sola un lungo calvario di sofferenze finché, il 30 Aprile 1945, viene finita con un colpo di pistola per poi essere gettata davanti alle mura del Cimitero di Zinola su un cumulo di cadaveri. Il corpo viene disteso dal personale del luogo nella fila dei riconoscimenti dove per diversi giorni. Qui viene notato dal Sig. Stelvio Murialdo per alcuni agghiaccianti particolari. Riportiamo, testualmente, dalla memoria del Sig. Stelvio Murialdo: “E proprio il primo era un cadavere di donna molto giovane; erano terribili le condizioni in cui l' avevano ridotta, evidentemente avevano infierito in maniera brutale su di lei, senza riuscire a cancellare la sua giovane eta'. Una mano pietosa aveva steso su di lei una SUDICIA COPERTA GRIGIA che parzialmente la ricopriva dal collo alle ginocchia. La guerra ci aveva costretto a vedere tanti cadaveri e in verità, la morte concede ai morti una distesa serenità; ma lei , quella sconosciuta ragazza NO!!! L' orrore era rimasto impresso sul suo viso, una maschera di sangue, con un occhio bluastro, tumefatto e l' altro spalancato sull' inferno. Ricordo che non riuscivo, come paralizzato, a staccarmi da quella povera disarticolata marionetta, con un braccio irrigidito verso l' alto,come a proteggere la fronte, mentre un dito spezzato era piegato verso il dorso della mano.”

La Sig.ra Ghersi viene rilasciata dopo 12 giorni di detenzione ed è costretta a recarsi presso al sede Comunista del quartiere Fornaci per domandare le chiavi della propria casa. Queste le vengono restituite solo il giorno successivo quando, accompagnata da un caporione del PCI, può riappropriarsi parzialmente dell’appartamento: il funzionario politico provvede infatti a sigillare tutte le camere eccetto una stanzetta e la cucina.
E’ quasi estate e il marito viene liberato dal carcere l’11 giugno senza mai essere stato interrogato per tutta la durata della detenzione. In questa circostanza apprende la notizia della morte di sua figlia e, nonostante il tremendo peso che aggrava il suo cuore, ritrova dentro casa la moglie prossima alla follia.
Il Sig. Ghersi si rivolge alla Questura dove, per via delle ruberie, gli viene corrisposto un acconto di 150.000 Lire mentre un agente si offre d’aiutarlo nella rimozione dei sigilli apposti ai locali della propria casa.
L’uomo, dovendo provvedere a moglie e cognata, viene assunto “per compassione” presso il consorzio ortofrutticolo dove riesce a percepire il minimo necessario per sopravvivere.
Sembra quasi che le cose tendano verso una certa normalizzazione, quando la notte dell’11 Luglio, a un mese esatto dalla scarcerazione di Giovanni, si iniziano ad avvertire alcuni rumori che svegliano di sobbalzo la famiglia. Un gruppo non identificato di persone cerca di forzare la porta di casa Ghersi che, fortunatamente, non cede.
Giovanni e Laura non riescono più a sostenere l’onere delle violenze subite e fuggono da Savona affrontando una vita di stenti e povertà incontrando in ogni dove il sospetto dei funzionari politici del Pci. Situazione del tutto simile a quella dei profughi istriani che, giunti in Italia, si trovano costretti a fuggire in altri paesi per via della pressione esercitata sul Governo, da parte del Partito Comunista Italiano. “Abbiamo dovuto scappare - si legge nell’esposto del Sig Giovanni - all’alba come ladri, da casa nostra, dalla nostra città , senza mezzi e senza lavoro, vivendo per anni in povertà e miseria, pur sapendo che gli assassini della mia bambina di appena 13 anni, vivevano nel lusso impuniti, onorati e riveriti, con i nostri soldi e di tutti quelli che erano morti o che erano dovuti scappare.
LA MEMORIA NEGATA
Negli anni ’50 il Sig. Stelvio Murialdo insieme ad altri amici decide di fissare un incontro periodico per cercare di dar voce alle storie negate dalla vulgata resistenziale. Nasce il primo gruppo dell’Associazione Ragazzi del Manfrei. Sono anni difficili attraversati da un filo rosso di omicidi come testimonia, ad esempio, il delitto del Commissario Salemi messo a tacere dalla misteriosa “Pistola Silenziosa”. L’unico ambiente che accoglie queste testimonianze è quello del Movimento Sociale Italiano col conseguente isolamento che ne consegue. I familiari delle vittime così come i testimoni oculari sono tacciati di essere dei nostalgici del Fascismo e né i giornali né gli autori di storia locale concedono cittadinanza a simili storie.
Passano i decenni finché, a livello nazionale, sembra aprirsi qualche spiraglio di speranza: il 2005 è l’anno del primo giorno del ricordo per i martiri delle Foibe e, timidamente, nel 2008 alcuni iniziano a chiedere alla locale sede de La Stampa di Savona la possibilità di parlare finalmente di Giuseppina Ghersi. Il Consigliere di Circoscrizione Vito Cafueri chiede, senza successo, che la piccola ottenga una targa in sua memoria nel quartiere Fornaci. Sembra comunque che il clima stia cambiando: l'ex senatore del Pci Giovanni Urbani, all'epoca commissario politico della divisione partigiana Gin Bevilacqua, dichiara: «Sono sceso a Savona proprio quel giorno ma non sapevo di questo episodio che merita di certo un approfondimento negli archivi. Non sarebbe un caso isolato. Venivamo da una guerra civile in cui era successo veramente di tutto» ma le reazioni non tardano e la Sig.ra Vanna Vaccani Artioli, per 27 anni Segretaria Provinciale e Consigliere Nazionale dell’Anpi afferma: «Mi ricordo Giuseppina Ghersi. Era poco più che una ragazzina ma collaborava con i fascisti. La sua fu sicuramente un'esecuzione». L’infondata accusa di collaborazionismo non può essere ribattuta perché, nel contempo, i parenti di uno dei partigiani probabilmente coinvolti nel fatto, denunciano La Stampa richiedendo un risarcimento che per legge spetta loro visto che il crimine in questione è stato amnistiato dalla Repubblica Italiana e a nessuno può essere imputato. I giornali scelgono di non parlare più del fatto fino all’11 febbraio 2010 quando La Stampa concede un piccolo ritaglio alla notizia dell’interpellanza del Consigliere Comunale Alfredo Remigio che, in sostegno all’iniziativa lanciata dai Ragazzi del Manfrei, chiede che sia “intitolato uno spazio pubblico o, quantomeno, istituito un Giorno del Ricordo in memoria di Giuseppina Ghersi”. Il Comune di Savona respinge la richiesta e in tutta Italia, via internet, sorgono gruppi spontanei in sostegno alla memoria di Giuseppina Ghersi. i Settori dell’estrema sinistra insorgono su vari siti e blog.
L’enciclopedia “libera” Wikipedia nega ripetutamente la possibilità di redigere una pagina a memoria dei fatti, mentre l’Anpi, alla richiesta di collaborazione avanzata dai Ragazzi del Manfrei, risponde col silenzio.
Da qui ai nostri giorni:  La Città di Savona e l’Italia del Diritto la ricorderanno mai?
Rosso, nero, bianco, azzurro. I colori della Vita diventano strumenti di odio in mano a chi si identifica in una ideologia, al di là del buon senso. Al di là del colore politico, una sola tinta si presta a connotare il racconto, il rosso del sangue dei martiri di tutti i tempi, assieme al bianco dell’innocenza, il verde della speranza. Speranza che si riscriva la storia, che sia fatta giustizia. Perché ciò che è stato è stato, ma abbiamo oggi il dovere di restituire dignità ai genitori della piccola Giuseppina e a tutti coloro che sono stati privati dei loro diritti, al di là dell’appartenenza politica. Nel viaggio finale, quello che siamo destinati a compiere tutti, non ci sono più colori e appartenenze, ma azioni, sentimenti, valori. E il colore, è quello dell’amore.
 
MINGOLINI ATTILIO UCCISO IL 26 APRILE 1945 
ZIO DI GIUSEPPINA GHERSI

LA TESTIMONIANZA AGGHIACCIANTE DI UN PADRE…

ESPOSTO DEL PADRE DELLA PINUCCIA GHERSI ASSASSINATA DA ALCUNI “GLORIOSI PARTIGIANI”

Il 29 aprile del 1949, il padre della povera Giuseppina Ghersi, Pinuccia, rapita, stuprata ed assassinata da tre partigiani comunisti nella notte del 30 aprile 45, prende carta e penna e mosso dalla rabbia e dalla disperazione per cio’ che la sua famiglia ha subito, torture, percosse, espropri, omicidi, minacce, scrive un esposto alla Procura della Repubblica di Savona.
Rappresenta uno spaccato di inferno, di storia italiana… che descrive con parole semplici, esaustive e pesantissime tutte le atrocita’ subite da egli stesso, dalla moglie e dalla piccola Pinuccia Ghersi, martirizzata dalla “polizia” partigiana.
Accaimenti ed eventi ”comuni” a tantissimi altri italiani in quegli anni dove regnava incontrastato l’arbitrio della follia e l’arroganza dei partigiani comunisti.
I valori della Resistenza non furono solo quelli degli assassini e del briganti che avevano diritto di vita e di morte su chiunque, ma è indiscutibile che parte di essa si sia macchiata di crimini orrendi e di inaudita violenza e ferocia.
Il pover’ uomo si chiamava Giovanni Ghersi, dall’aprile del 1945 dovette subire l’inferno in terra, pur non essendo un torturatore o un “rastrellatore fascista”: arrestato lui e la moglie, percosso, imprigionato nel famigerato campo di concentramento di Legino, gestito dai partigiani comunisti, spogliato di ogni avere, persino epurato e costretto ad fuggire da Savona per evitarsi la morte per lui e la moglie.
Morte atroce e disumana che non pote’ evitare alla sua piccola figlia di appena tredici anni, Giuseppina.
Ecco l’esposto , indirizzato al Procuratore di Savona e firmato dal Signor Ghersi, consta di sei cartelle, manoscritte con una grafia fitta, con delle correzioni, pieno di sofferenza:
Ne approfitto per chiedere alla attuale Procura della Repubblica, se non ritienga che sussistano gli elementi oggettivi per riaprire un caso molto spinoso che necessita di molti chiarimenti a tutt’oggi…
“…Il 25 aprile 45, alle 5 pomeridiane, sono arrivati a Savona, i partigiani, noi stavamo alla finestra, ci venne chiesto del materiale di medicazione che noi fornimmo volentieri.
Il 26 ci recammo al lavoro alle 6, al nostro ingrosso di frutta e verdure, accompagnati da un vetturino, Meriggi, abitante in Via Saredo, accanto a casa nostra.
Arrivati a San Michele, fummo fermati da due partigiani armati di mitra, uno rimase a guardia di noi e l’altro ando’ a telefonare in un garage, del Signor Filippo Cuneo. Venne un tale che si qualifico’ come tenente, della polizia partigiana.
Uno dei partigiani, De Benedetti Giuliano, volle che fossimo tradotti al campo di prigionia di Legino sotto scorta armata. Venni disarmato del coltello da lavoro che abitualmente portavo dietro.
Arrivati a campo di Legino, luogo di morte di tanti poveretti, fummo contattati da un certo Piovano, abitante a Savona in Via Valletta San Michele attualmente operaio delle FS, il quale ci sequestro’le chiavi di casa e del magazzino della nostra merce. Dopo circa mezz’ora fu tradotta al campo, anche mia cognata, coabitante con la mia famiglia. In questo modo la casa e il magazzino furono depredati di tutto senza testimoni, per portare via tutto sono stati usati camion e carretti. Anche dalla casa sparirono oro, argento e denari…”
Ora arriva il peggio, che riporto testuale dall’esposto :
“ il 27 aprile, verso le 10 del mattino, i partigiani del campo, minacciarono di morte mia moglie per sapere dove fosse la mia bambina, di appena 13 anni, terrorizzati, acconsentimmo ad accompagnarli a prenderla dove essa era, presso dei conoscenti in via Paolo Boselli 6/8 Savona. Accompagnata da un “brutto ceffo” certo Guerci, abitante a Zinola, operaio ILVA, la presero e la condussero al campo.
Nel pomeriggio cominciarono le nostre torture, presero la bambina, e ci giocarono a pallone, portandola in uno stato comatoso, perdendo tanto sangue che non aveva piu’ la forza di chiamare suo papa’, poi si sfogarono su mia moglie, malmenandola e percuotendola in modo che lascio alla vostra immaginazione, poi in cinque cominciarono a battermi con il calcio del moschetto, sulla testa e sulla schiena, tutto cio’ perche’ rivelassi dove avevo nascosto altri soldi e altro oro.
Dopo aver conciato per bene io e mia moglie, da fare pieta’, verso le sei, mentre pioveva a catinelle, fummo condotti in via Niella, dal Comando partigiano, dove ci fu detto che a nostro carico non era emerso nulla. Nonostante cio’ fummo portati al Carcere di S. Agostino arbitrariamente da tale Serra, nato a Spotorno e residente a Legino.
Mia moglie dopo 12 gg. Fu rilasciata e si reco’ presso la sede Comunista delle Fornaci, dove chiese le chiavi di casa, che dopo grandi insistenze le vennero restituite. Ma per poco, infatti arrivo’ un certo Ferro abitante in Via Bove, che per ordine della sezione del PCI delle Fornaci, le riprese.
L’indomani, mia moglie torno’ al Comando Partigiano in Via Montenotte e riebbe le chiavi di casa nostra, ma appena in casa, entro’ anche un caporione del PCI tale Peragallo, abitante in Via Tallone 9/12, il quale sigillo’ tutte le camere tranne la cucina e una cameretta.
Il giorno 11 giugno, senza mai essere stato interrogato fui liberato, appresi della uccisione della mia bambina, Pinuccia, e ebbi grande sconforto da questa notizia. Andai in questura e chiesi di far togliere i sigilli alle camere, cosa che fece un agente. A causa delle ruberie subite l’intendenza di finanza mi corrispose un acconto di 150.000 lire.
Gli animali che avevo, conigli e galline, furono venduti ad un pubblico ristorante; essendo senza lavoro ed indigente, venni assunto per compassione presso il consorzio ortofrutticolo dove percepivo il necessario per poter vivere con mia moglie e sua sorella, era un periodo quasi sereno…
Ma una notte, l’11 luglio 45, un gruppo di persone tento’ di forzare la porta di casa per prelevarmi e farmi fare la stessa fine di mia figlia e di molti altri. La porta per fortuna non cedette. E quella notte, salvammo la vita…
Per questo motivo, abbiamo dovuto scappare all’alba come ladri, da casa nostra, dalla nostra citta’ , senza mezzi e senza lavoro, vivendo per anni in poverta’ e miseria, pur sapendo che gli assassini della mia bambina di appena 13 anni, vivevano nel lusso impuniti, onorati e riveriti, con i nostri soldi e di tutti quelli che erano morti o che erano dovuti scappare.
Signor Procuratore,
mia figlia fu assassinata il 30 aprile del 45, dopo mezzanotte, alle 4 del mattino a Legino e fu portata al cimitero di Zinola, e buttata come un sacco di patate nel mucchio dei morti amazzati che tutte le notti riempivano il piazzale davanti al cimitero, assieme a lei fu ammazzata Teresa Delfino , Vico Crema 1/1 Savona. Pare che l’autore degli assassini sia stato Gatti Pino di Bergeggi.

Sono arrivato alla determinazione di sottoporre alla S.V. i fatti, affinche’ sia fatta luce su questa faccenda, e vengano puniti i responsabili del delitto commesso in persona della mia bambina oltreche’ di tutti i furti che abbiamo dovuto subire.
Nel primo dopoguerra, tra il 1945 e il 1949, molte persone, sostenitori o simpatizzanti (o sospettati di esserlo) dello sconfitto regime fascista, o di essere orientate a favore del mondo cattolico, liberale, o semplicemente danarose, furono rinchiuse in campi di concentramento. In molti casi furono rilasciate, talvolta dopo torture, o dopo aver pagato un riscatto. In altri casi vennero torturate, violentate, uccise, dalle guardie e talvolta venne concesso di dare sepoltura ai corpi, in altri casi i corpi furono fatti sparire, usando il metodo della Lupara bianca.
Per valutare la violenza diffusa e massiccia di quegli anni di terrore vi sono recenti studi resi possibili dalla aperture di molti archivi dell’ex URSS. Lo storico Victor Zaslavsky riporta nel suo libro “Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca” un rapporto dell’allora capo del PCI Palmiro Togliatti all’ambasciatore sovietico in Italia Mikhail Kostylev sul numero di persone che venivano uccise senza processo in quei tempi. Il 31 maggio 1945, l’ambasciatore si incontrò con il segretario del PCI e inviò a Mosca un rapporto sul colloquio. In questo incontro con l’ambasciatore sovietico Togliatti valutò a circa 50.000 le persone uccise con esecuzione sommaria dopo la fine della guerra. Togliatti precisò pure che molte persone rilasciate dalle autorità americane venivano poi eliminate dai partigiani.
Giuseppina Ghersi era una giovane di 13 anni, studentessa dell’Istituto Magistrale “Maria Giuseppa Rossello” della Villetta, Savona. Abitava in via Tallone, attualmente via Donizzetti. Apparteneva ad una famiglia di commercianti ortofrutticoli, il padre Giovanni Ghersi. Il corpo senza vita della ragazza fu abbandonato nel cimitero di Zinola, (Savona) nell’aprile del 1945.
Il 26 aprile i genitori si recarono al lavoro alle 6, al loro ingrosso di frutta e verdure, a San Michele, vicino alla loro casa. Arrivati a San Michele, furono fermati da due partigiani armati di mitra, successivamente venne un altro che si qualificò come tenente, della polizia partigiana. Furono tradotti al Campo di concentramento di Legino sotto scorta armata. Arrivati al campo di Legino, furono loro sequestrate le chiavi di casa e del magazzino della merce. Dopo circa mezz’ora fu tradotta al campo la cognata che viveva nella loro casa. Furono depredate la casa, di oro, e denaro, e il magazzino della merce.
Il 27 aprile verso le 10 del mattino, le guardie minacciarono di morte la moglie per sapere dove fosse figlia tredicenne. Terrorizzati i Ghersi accompagnarono le guardie a prenderla, presso dei conoscenti in via Paolo Boselli 6/8 Savona, da dove fu presa e condotta al campo. Nel pomeriggio la ragazza fu presa e le guardie ci giocarono a pallone, riducendola in uno stato comatoso, perdendo tanto sangue da non avere più la forza di chiamare il suo papà. Poi le guardie si sfogarono sulla moglie, malmenandola e percuotendola, successivamente in cinque batterono il padre con il calcio del moschetto, sulla testa e sulla schiena, chiedendogli di rivelare dove avesse nascosto altri soldi e altro oro. Verso le 18 furono condotti in via Niella, al Comando partigiano, dove fu loro detto che a loro carico non era emerso nulla. Furono tuttavia portati al Carcere di S. Agostino.
Dopo 12 giorni fu rilasciata la moglie. L’11 giugno, senza mai essere stato interrogato fu liberato il padre che apprese in tale occasione che sua figlia Pinuccia era stata uccisa.


 
VISITA IL SITO 

Nessun commento:

Posta un commento