sabato 22 aprile 2017

ALESSANDRO PAVOLINI

ALESSANDRO PAVOLINI



 
“ Camerati si ricomincia. Siamo quelli del Ventuno.... Lo squadrismo è stata la primavera della nostra vita. Chi è stato squadrista una volta, lo è per sempre. »
(Alessandro Pavolini, 14 novembre 1943)


"Dal Fascismo ho avuto tutto e tutto intendo restituirgli! " 
( Alessandro Pavolini )

“SULL’ ANTICO TRICOLORE, CHE IN UNA LONTANA PRIMAVERA NACQUE SENZA STEMMA SULLA SUA PARTE BIANCA, NOI SCRIVIAMO, COM ESU UNA PAGINA TORNATA VERGINE, UNA SOLA PAROLA: ONORE !”
(conclusione del primo discorso di Pavolini da radio Monaco)



"Un’Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana"
“Il fascismo saloino intendeva combattere tutte le internazionali del potere: economiche, finanziarie, religiose e politiche. Per farlo si doveva partire dal centro, ovvero dalla ricerca di un uomo che fosse un vero soggetto rivoluzionario” (G. Adinolfi). La scelta era caduta su Alessandro Pavolini che intendeva plasmare le nuove generazioni utilizzando il pungolo dell’orgoglio, temprarle con il mito del gesto eroico nel nome di un dogma, renderle coscienti delle proprie potenzialità guerriere e educarle al nobile scopo dell’interesse collettivo, cancellando tutti i difetti ereditati dall’Italia liberale e da una certa mentalità cattolica antinazionale, gretta, bigotta, conformista e clericale che predicava affinchè la devianza si innalzasse a norma, il disordine a ordine e la trasgressione a regola codificata da rispettare. Per modellare la gioventù serviva un esempio storico ed un riferimento morale.
“Ed ecco che il perno intorno al quale operare veniva offerto dalla tradizione rivoluzionaria dello squadrismo. Sulla base dello stesso e sugli ideali che avevano propiziato la marcia su Roma si sarebbe effettuata la seconda rivoluzione e si sarebbe affermata la nuova Roma” (G. Adinolfi). I richiami di Pavolini allo squadrismo erano di tipo propedeutico-nostalgico: squadrista, nel senso effettivo e violento del termine, non lo era mai stato, ma voleva esserlo proprio alla fine dei suoi giorni anche se ciò significava rimanere solo in una dimensione trascendentale della quale aveva l’orgoglio di rappresentare la prassi consolidata e non la sporadica eccezione.
Per quanto sbagliata potesse essere la sua ideologia e i mezzi che aveva adottato per metterla in pratica, Pavolini, e con lui gli ultimi epigoni di Mussolini che avevano deciso di seguirlo in Valtellina, era incontestabilmente una persona di una linearità e di una rettitudine esemplare.
Con il fascismo non si era arricchito e non aveva cercato con bramosia di occupare posizioni che gli avrebbero permesso di gestire un potere a cui aveva sempre dimostrato di non ambire. Il ruolo che occupava era per lui il mezzo necessario per adempiere al suo dovere, la maniera per servire la Patria nel migliore dei modi, lo strumento che gli garantiva la sicurezza di non essere frainteso o considerato un uomo che alle parole non faceva mai seguire i fatti concreti.
Era un idealista convinto ancor prima di diventare qualcuno, un fedele più che un fidato, un apostolo più che un predicatore, un passionale che trovava nel fascismo non una giustificazione, ma una inscalfibile e incrollabile certezza.
Era di un’onestà adamantina, forse feroce, probabilmente utopico, sicuramente settario, ma fondamentalmente casto anche se molti avevano visto e vedevano in lui l’antitesi dell’innocenza, la depravazione del vinto, l’arroganza dell’intransigente e la protervia del disperato.
Carattere ribelle, scontroso e perfino zerbioso, il suo gusto per la polemica si spingeva fin quasi alla provocazione. Uomo nato per l’azione, solo di lei necessitava e solo in essa realizzava compiutamente il suo mondo interiore. I suoi assassini non hanno ucciso un uomo, ma un idea, non un nemico, ma un simbolo, non un delinquente fascista, ma un fascista che aveva risposto alla violenza con la violenza, all’odio con l’odio, alla crudeltà con la crudeltà, al dolore con il dolore.

Era giusto con coloro che credevano nella giustizia, spietato con quelli che non avevano pietà, risoluto con chi tergiversava, indisponente e indisponibile con le persone che amano i compromessi, le camarille, gli intrighi e i giochi di palazzo. Sincero con gli onesti, disdegnava le menzogne dei mestatori che pescano nel torbido, dei voltagabbana che preferiscono le soluzioni di comodo e degli untuosi cortigiani che popolavano indisturbati il sottobosco del governo repubblicano.

Era paterno con la gioventù minorenne (Elena Curti), generoso con gli amici (Pino Romualdi), riverente con gli anziani (Rodolfo Graziani) e benevolo con i suoi sottoposti (la sua unica guardia del corpo) a cui chiedeva tutto in quanto sapeva di essere il primo a non tirarsi mai indietro anche se le difficoltà che incontrava sul suo cammino gli sembravano davvero insormontabili.
Il comandante delle Brigate Nere sapeva accettare consapevolmente la sconfitta e consapevolmente si batteva per difendere il suo onore e quello inviolabile della nazione. Alcuni lo consideravano un visionario, altri lo reputavano un criminale macchiato di sangue. Non era un cerchiobottista, né andava soggetto ai venti del momento e ai richiami dell’ultima ora. Era coerente con le sue idee, idee con cui tanti si riempivano la bocca e che troppi sfruttavano a loro esclusivo vantaggio. Aveva la forza di sostenerle contro chiunque e contro tutti gli incasellamenti dettati dall’utilitarismo qualunquista della cultura borghese. Era uno contrario a priori, un signor nò, e forse per questo veniva guardato con diffidenza da chi andava dietro alle mode passeggere e alle suggestioni novecentesche delle asimmetrie sincopate e dei cigli depilati.
Dominato da un rigore ideologico e dal diniego per gli accomodamenti, Pavolini apparteneva a quella generazione che non avendo fatto in tempo, per motivi anagrafici, a partecipare alla grande guerra aveva identificato il suo battesimo del fuoco, la propria iniziazione virile, con il periodo dello squadrismo che per lui rappresentava il fascismo tout court.

Il romanticismo del Segretario del Partito Fascista Repubblicano si sommava all’entusiasmo, alla trepidazione, all’angoscia e alla speranza di chi attraversa in circostanze straordinarie quella che i francesi chiamano la “crise du midì”: ci si accorge di avere tutt’a un tratto due volte vent’anni, constatazione che sovrappone la nostalgia della giovinezza all’ansia di un incipiente ed inevitabile declino. Nel fascismo pavoliniano era possibile distinguere timbri giacobini: l’idea del fascismo come fenomeno rivoluzionario, come movimento di masse destinate a diventare protagoniste della Storia al pari di quelle bolsceviche. Ciò spiega il motivo per il quale il capo delle Brigate Nere aspirava, più o meno consciamente, a ricoprire il ruolo dello spietato Saint-Just della rivoluzione fascista.

Nelle sue parole non c’era l’allarme dell’impotente che ha bisogno di un ipotetico persecutore per apparire vittima, non traspariva lo pseudoantagonismo che consente di assumere un viso feroce per intimorire un nemico fatto su misura e non si evidenziava lo spirito manicheo che fa del contraddittore un avversario da colpire impietosamente. Era un camerata impaziente, controcorrente e ambizioso che aveva anatomizzato la Storia, togliendole ogni afflato mistico e seducente. La solidarietà, la generosità e l’impersonalità del servizio erano le parole d’ordine dell’azione pavoliniana. Inneggiava alla virtù marziale di un popolo la cui voglia di lottare era appannaggio di una schiera di eletti. Per la sua preparazione intellettuale (che lo distanziava di molto dalla media dei gerarchi fascisti) e per la sua intransigenza non poteva che essere un isolato. Egli incarnava il binomio inscindibile della retorica ventennale “libro e moschetto”, confermandosi pienamente e senza ombra di dubbio l’unico “poeta armato”.

Pavolini non era un moralista, era piuttosto un uomo dotato di un gran senso morale. Nessuno era meno gerarca di lui, nel significato più convenzionale del termine, ma nessuno era più di lui cosciente delle responsabilità, dei doveri e delle sostanziali prerogative che aveva la gerarchia intesa come una derivazione diretta ed inevitabile della fondamentale disuguaglianza dalla quale è segnato il destino umano. “I suoi problemi interiori non erano i problemi del “perché”, erano i problemi del “come”. Il “perché” era scritto a lettere indelebili nella pagine della sua coscienza e non era un “perché” fatalistico, ma un “perché” di fede” (L. Longo). La concezione antimaterialistica dell’universo lo portava ad esaltare una visione globale dell’esistenza e dell’agire umano, una visione che era il risultato di una continua operazione mentale d’analisi introspettiva rigorosamente autoreferenziale.


Viveva l’idea del fascismo con il metro di una interiorità profonda continuamente alimentata dall’entusiamo, ma nel contempo sofferta perché quotidianamente posta di fronte all’altro canone interpretativo, quello dei molti per i quali il regime rappresentava solo che costruzione solida, comoda e utile, alla quale potersi appoggiare e in cui trovare un confortevole ricetto dove poter celebrare i propri lugubri riti.

Unico tra i gerarchi della repubblica di Salò ad essere catturato con le armi in pugno, Pavolini è stato fucilato dai partigiani il 28 aprile del 1945 sul lungo lago di Dongo con altri quattordici camerati che con lui, prima della scarica fatale, avevano gridato un triplice “viva” all’immagine di un' Italia che era già morta.
Il giorno prima, mentre con altri prigionieri all’interno del Municipio di Dongo si apprestava a trascorrere l’ultima notte della sua vita, con voce nitida e pura che sovrastava il vociare del becerume esterno allupato di carneficina, aveva ordinato, insieme a Ferdinando Mezzasoma, il “Saluto al Duce” (L. Longo). L’atto finale di un culto celebrato attraverso un rituale che in quel momento andava ben oltre la figura di colui al quale era rivolto per assumere il significato di una attestazione monumentale.
scritto da Alberto Bertotto-da "Rinascita"

27 OTTOBRE 1934
Squadristi della "Dante Rossi", una delle più note squadre fiorentine. Riconoscibilissimo, al centro, leggermente chinato in avanti, Alessandro Pavolini, che della "Dante Rossi" aveva fatto parte, prima di passare alla "Gustavo Mariani", la foto è stata fatta in via Martelli, alla piazza del Duomo, la "Dante Rossi"  aveva sede in via Verdi, in quello che oggi è il Catasto. Lo striscione in alto porta il col nome del caduto Guido Fiorini


Pavolini appoggiato alla carlinga di uno dei Caproni Ca.101
 della squadriglia di bombardieri "La Disperata"

“PARTITO EMINENTEMENTE PROLETARIO….”
“Ora, in un Partito eminentemente proletario, possiamo noi volere che l’unico vivaio della dirigenza politica sia costituito da coloro che frequentano l’Università ? No. Finchè le Università non siano, come noi vogliamo che diventino, frequentate senza distinzione di ceti, di condizioni economiche della famiglia, da tutti i bravi ragazzi e da tutti i più intelligenti ragazzi che siano nelle scuole primarie e medie della Repubblica”

(Pavolini al Congresso di Verona)


Discorso di Alessandro Pavolini
"..... «A chi ci domanda ancora: che cosa volete? Rispondiamo con tre parole nelle quali si riassume il nostro programma. Eccole: Italia, Repubblica, Socializzazione. Italia, per noi nemici del patriottismo generico, concordatario e in fondo alibista, quindi inclinante al compromesso e forse alla defezione, Italia significa onore e onore significa fede alla parola data [...] La nostra Italia è repubblicana. Esiste al nord dell'Appennino la Repubblica Sociale
Italiana. E questa Repubblica sarà difesa palmo a palmo, sino all'ultima provincia, sino all'ultimo villaggio, sino all'ultimo casolare. Quali siano le vicende della guerra sul nostro territorio, l'idea della Repubblica, fondata dal Fascismo, è entrata nello spirito e nel costume del popolo. La terza parola del programma, socializzazione, non può essere considerata che la conseguenza delle prime due: Italia e Repubblica. La socializzazione altro non è che la realizzazione italiana, umana, nostra effettuabile del socialismo [...] tutti coloro che hanno l'animo sgombro da prevenzioni e da faziosi settarismi possono riconoscersi nel trinomio Italia, Repubblica, Socializzazione. Con questo noi vogliamo evocare sulla scena politica gli elementi migliori del popolo lavoratore. La capitolazione del settembre segna la liquidazione ontosa della borghesia considerata globalmente come classe dirigente. Lo spettacolo da essa offerta è stato scandaloso. Si sono avuti incredibili fenomeni di obbiezione, manifestazioni sordide di egoismo asociale e anazionale. [...] Poiché il più grande massacro di tutti i tempi ha un nome — Democrazia — sotto la quale parola si nasconde la voracità del capitalismo giudaico che vuole realizzare attraverso la strage degli uomini e la catastrofe della civiltà
cristiana lo scientifico sfruttamento del mondo. [...] A questa fase della guerra noi intendiamo partecipare: eliminando i complici del nemico all'interno e chiamando attorno a noi quanti italiani accettano il nostro trinomio programmatico. Qualunque cosa accada, noi non defletteremo di una sola linea dal programma che oggi, parlando a Voi, o camerati della Brigata Nera — espressione e onore del Fascio primogenito — ho voluto illustrare».."
Mentre molti di coloro che per vent'anni erano sempre stati "petto in fuori e pancia in dentro", si squagliavano come conigli, egli bevve fino in fondo 1'amaro calice della Repubblica Sociale Italiana. Nelle ultime disperate ore di Dongo fu uno dei pochi ad essere catturato con le armi in pugno Dopo la fucilazione, ormai morente, levò il braccio destro nell'ultimo saluto romano e dalle sue labbra si udì un grido: "RITORNEREMO"!


COMANDO GENERALE DELLE BRIGATE NERE
Maderno (Brescia) poi Milano  Via Manzoni 10, posta da campo 704
Comandante generale : Col. con funzione di Gen. di divisione Alessandro Pavolini ucciso 28/4/45
Ufficiale addetto : Magg. Puccio Pucci
Capo di S. M. : Col. Giovanni Battista Riggio, dal 28 Ottobre 1944 Gen. Eduardo Facdouelle
Ufficiale addetto : Magg. Forni
Comandante del quartiere Generale : Giovanni Armeni
Assistente spirituale : Cap. Padre Eusebio
Motorizzazione : Col. Brinchigiusti
Personale e disciplini : Rosario Sposito
Operazioni : Gen. Franco Matranga
Sanità : Col. Medico Edmondo Leppo
Ispettore : Gen. Bruno Biagioni
Tribunale di guerra : Gen. Ugo Frigerio
Corrispondenti di guerra : Enrico Edgardo Battilana, Luciano Cavazzoni, Leonardo Chiara, Ugo Franzolin, Giancarlo Pelagatti, Gildo Pezzucchi, Enrico Servetti.

Militi a disposizione : Alama Alfredo, Angelucci Giuseppe, Barsi Ugo, Beccaria Benita, Bramati Domenico, Cadau Gianfranco, Catani Aldo, Cavallo Anna, Cavio Teresa, Cera Giuseppe, Chiti Amerigo, Consonno Alessandro, Corradi Giuseppe, Cortesi Gino, Crescenzi Mario, Della Rocca Giuseppe, Desti Dante, Filidei Gradulfo, Fiorani Aldo, Fornari Gino, Gaddi Otello, Giachin Antonio, Gnesi Gastone, Grossi Emilio, Mariotti Carlo, Mascherini Alcide, Milanesi Lodovico, Milanesi Riccardo, Olgiati Guido, Pippa Ernesto, Pucci Arnaldo, Purchieroni Enrico, Rivolta Ernesto, Rosa Erminia, Scala Sirio, Tombari Silvana, Tommmasi Virgilio, Viola Ernesta.
IN FAMIGLIA NON ERA TUTTO FACILE….
Pavolini ricorda il tempestoso clima che attendeva, ai tempi della vigilia, molti giovani fascisti in casa, e rinnova il suo rimprovero ai genitori che invitavano:
“….i loro ragazzi “di buon famiglia” a non frequentare il fascio giovanile, perchè ci sono “troppi maleducati” o perchè “i nostri non ne hanno bisogno”, come ho sentito dire….
Perché questi (genitori ndr) resteranno fuori dalla nostra mentalità, oltre che dai nostri ranghi, e non potranno aver domani nessuna voce in capitolo. L’educazione poltica, se ne persuadano tutti, è cosa infinitamente più importante della “educazione borghese”, nel senso del galateo e della “classe”
(Alessandro Pavolini su Il Bargello del 25 gennaio 1931)

MILANO OTTOBRE 1944
PAVOLINI FA DA TESTIMONE AL MATRIMONIO 
TRA UNA AUSILIARIA E UN MILITE DELLE BRIGATE NERE

Alessandro Pavolini nel letto d’ ospedale, dopo essere stato ferito, in azione antipartigiana, il 12 agosto del 1944, nei pressi di Ceresole Reale.
Pavolini fu ferito ai glutei ed alle cosce, un ordigno lanciato dai partigiani era esploso alle spalle di Pavolini che, come era suo dovere e come aveva scelto che fosse, stava in prima linea
Leggiamo il racconto di Enzo De Benedictis, la sua guardia del corpo, che c’era:
“Per alcui minuti rispondemmo al fuoco riparandoci alla meglio. Poi un proiettile mi colpì alla spalla, e subito dopo una bomba a mano esplose alle spalle di Pavolini, ferendolo seriamente al fondo della schiena. Quasi contemporaneamente io mi ero buttato su di lui per fargli da scudo, così cademmo a terra insieme, io di traverso sopra di lui. Intanto la sparatoria continuava, e non vedevo vie di uscita. Qualcosa di simile mi era capitato, qualche tempo prima, a BirEl Gobi: mi ero salvato fingendomi morto. Decisi di fare altrettanto. “Eccellenza, per carità non muovetevi –mormorai- devono crederci morti. E restammo immobili per tre-quattro ore, perdendo sangue, finchè non vennero a salvarci”
Nella stessa operazione, “improvvisata” secondo il migliore stile fascista, rimasero feriti –sia pure meno gravemente- anche Borghese, il Colonnello Quagliata e due alti dirigenti fascisti locali. Pavolini resterà, invece, lievemente zoppo.
Non perderà, comunque, il suo spirito “toscanaccio”, e dal letto di Ospedale si preoccuperà, per prima cosa, di scrivere alla moglie per evitare che apprenda da altri la notizia: “Sto benissimo, ma un po’ ferito, e questo mi darà modo di avere una tua graditissima visita al più presto. Stavo venendo da te a Laveno, ma mi sono fermato per strada, e così abbiamo dato e ricevuto botte”

VENEZIA GIULIA INVERNO 1944 

IL FASCISMO NAZIONAL-POPOLARE "ALESSANDRO PAVOLINI"
 
Quanti Pavolini ci sarebbero serviti per vincere la guerra? O almeno per finire in maniera più dignitosa? Quelle che a prima vista possono apparire come le due anime dell’uomo e del gerarca, quasi come due personalità diverse: quella gentile e affabile, quella dell’ideatore dei Littoriali e del maggio fiorentino, quella del cultore di un’arte assolutamente libera, autorizzò tra l’altro la proiezione del film giudicato eretico "Ossessione di Luchino Visconti"; e quella del gerarca duro e intransigente, coerente fino al midollo dell’ortodossia fascista che lo porterà a morire con le armi in pugno. In realtà non si trattava di due personalità diverse ma di un unico modo di concepire la vita che si plasma a circostanze e situazioni storiche. La sua anima malinconia lo portava a girare la sera per cimiteri, girovagando tra una lapide e l’altra. Una sera del 1941, mentre passeggiava con Doris Durante disse all’attrice: "vorrei tanto che quel provvedimento di Mussolini fosse stato approvato". Di cosa si trattava chiese tutta incuriosita la diva del cinema. Pavolini lentamente rispose, "il Duce vorrebbe prolungare la tessera annonaria anche alla fine della guerra." E perché mai chiese l’attrice? La voce del ministro si fece roca, poi rispose "in questa maniera Agnelli sarebbe costretto a mangiare le stesse cose dei suoi operai." Pavolini segretario del Partito fascista Repubblicano sapeva di dover morire, ma questo non gli importava più di tanto, non era tanto angosciato
dalla morte ma dal come sarebbe morto. Il culto della bella morte ossessionò i suoi ultimi giorni di vita, non era tanto un fatto estetico, ma di coerenza politica, diceva sempre in quei drammatici ultimi giorni di Salò che era finalmente arrivato il momento di far seguire alle parole i fatti. A suo avviso con la fine del fascismo finiva tutto, non si doveva pensare al dopo, niente alleanze con i partigiani non comunisti, niente dopoguerra dove poter portare la propria esperienza, la coerenza imponeva soltanto di morire bene Il ridotto della Valtellina tutti insieme, guardandosi negli occhi per difendere un brandello di idea, un mondo al tramonto, una civiltà alla fine. Ma nemmeno questo gli fu concesso, pregò fino all'ultimo Mussolini di non salire su quel camion tedesco, di rimanere tutti insieme tra italiani, ma le cose come è noto andarono in maniera diversa. I suoi esordi erano stati molto diversi. Nato a Firenze nel 1903, in una famiglia votata alla cultura, fin da ragazzo unì l’amore per la letteratura e la scrittura a una grande passione civile e politica. Interventista, benché adolescente e impossibilitato a partecipare alla Grande Guerra, dopo il conflitto aderisce al fascismo e, poco più che diciottenne, ma già squadrista veterano, partecipa alla marcia su Roma. Tra le opere che portano la sua firma ricordiamo: la stazione centrale di Firenze Santa Maria Novella, l’autostrada Firenze mare. Durante il periodo della RSI restano le parole di Pino Romualdi: "povero caro Sandro! Mentre ricordo le sue ore amare e dolorose di quei giorni, risento il suono delle sue ultime parole e rivivo i particolari dei suoi ultimi gesti, la figura di Alessandro Pavolini mi sembra staccarsi sempre più netta dalla
massa di tutti gli uomini che in vent’anni e più servirono Mussolini. Contro di lui si accanisce oggi il risentimento e l’odio dei vili e dei tiepidi di ogni colore. I nuovi duri gli muovono una infinita di critiche; nessuno però ha il coraggio di confessare che se avessimo avuto tutti la sua decisione e la sua indomabile fierezza ci saremmo trovati, come avevamo sempre sognato, uniti intorno a Mussolini, per difendere ad oltranza la vita dei nostri uomini e la dignità della nostra bandiera. Siamo quindi tornati al punto di partenza. La sua fede incrollabile e la sua coerenza hanno FATTO PAURA AI SUOI STESSI UOMINI E AI SUOI AMICI Più CARI. Uomini del genere fanno paura perché ci mettono drammaticamente davanti a quello che siamo nella nostra piccolezza nel perenne conflitto tra l’infinitezza dell’ideale e la finitezza del reale. Vorremmo tanto essere come loro ma non abbiamo spesso gli attributi perciò cerchiamo in tutte le maniere di metterli in cattiva luce per sembrare così noi meno deboli e pusillanimi. Nel periodo della Repubblica Sociale, non ci poteva più essere posto per i deboli lì si andava soltanto a morire per riscattare l’onore tradito, non ci potevano essere dubbi. Il fascismo doveva divenire assolutamente intransigente perché i posteri ci avrebbero giudicato per i nostri comportamenti Pavolini, in quest’epoca di mediocri, in questa società del politicamente corretto, del sapersi arrangiare all’italiana, di salire il più velocemente possibile sul carro dei vincitori deve essere trasmesso ai più giovani che devono capire che non si può sempre scendere ad ignobili compromessi, ma rimanere sé stessi rappresenta un vero atto rivoluzionario contro tutto e contro tutti. Nel poster che ho davanti a me mentre scrivo questi appunti troneggia la sua immagine e sotto c’è scritto;  "dopo l’8 settembre abbiamo imparato a conoscerci meglio. Questa è la stagione in cui non basta più il distintivo all’occhiello occorre la vecchia e inconfondibile camicia nera, uniforme di milizia."
Prof. Roberto Mancini
PIAZZALE LORETO : IL CADAVERE DI ALESSANDRO PAVOLINI
 

Brano di Alessandro Pavolini, sul “clima” della Repubblica Sociale Italiana:

DA SETTEMBRE IN POI SI È IMPARATO A CONOSCERCI
NOI PENSIAMO COME COLORO I QUALI, ALLE AVVERSITÀ’
ALLORCHÈ’ SI FANNO PIÙ ACUTE E DRAMMATICHE,
REAGISCONO COL PROFESSARSI E CON L’ESSERE
ANCORA PIÙ FANATICAMENTE FASCISTI
QUANDO ALTRI PRUDENTEMENTE SI MIMETIZZANO
ALLORA È’ LA STAGIONE IN CUI A NOI
NON BASTA PIÙ’ IL DISTINTIVO ALL’OCCHIELLO
E VOGLIAMO LA VECCHIA INCONFONDIBILE CAMICIA NERA
LA QUALE RAPPRESENTA UNA UNIFORME DI MILIZIA
 
.
 
 

LA TUTA DA OPERAIO

 
Con circolare del 5 novembre 1943, Pavolini cerca di regolare il proliferare di formazioni squadriste in varie città, e dispone la costituzione di “Squadre federali di polizia” che:
-devono difendere la vita del Partito e quella dei suoi aderenti;
-sono comandate dal Segretario del fascio, senza che siano previsti “altri gradi o galloni di alcun genere”;
-non prevedono stipendi (salvo che nel caso di impiego continuativo), né uffici;
-hanno per uniforme la camicia nera, la tuta blu scuro da operaio, il bracciale con la scritta “Polizia federale”
L’uso della tuta blu da operaio è una bella novità per un ambiente che troppo a lungo aveva giocato con orbaci, pennacchi e stivaloni
 

“IL VECCHIO FUOCO DELLO SQUADRISMO”

“Da settembre in poi si è imparato a conoscerci. Noi pensiamo come coloro i quali, alle avversità, allorchè si fanno più acute e drammatiche, reagiscono col professarsi e con l’essere ancora più fanaticamente fascisti; quando altri prudentemente si mimetizzano, allora è la stagione in cui a noi non basta più il distintivo all’occhiello, e vogliamo la vecchia, inconfondibile camicia nera, la quale rappresenta una uniforme di milizia
….Ma tutto non è perduto se in questa ora di infamia uomini di carattere si raccolgono intorno ad una bandiera che, attraverso il dovere, significa soltanto dedizione totale ed estremo rischio. Questa bandiera è il fascismo
….Forze della riscossa saranno le brigate Nere, in cui fiammeggerà, in una seconda primavera, il vecchio fuoco dello squadrismo
A noi, camerati ! Nonostante ogni fallace apparenza, l’avvenire ci appartiene, perché noi apparteniamo ad una Europa eroica, le cui luci, necessarie al mondo, non possono spegnersi”
(discorso alla radio di Pavolini, il 25 luglio del 1944)
 
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